Per molti la maratona non è una disciplina sportiva, ma una vera e propria manifestazione estetica, al pari di un film o di una rappresentazione teatrale. Il più grande interprete di questa specialità, infatti, più che un atleta era un ballerino, che danzava al ritmo insistente dei suoi piedi sull’asfalto, come posseduto dal suono ossessivo dei tamburi africani, suonati nella terra dove era nato, a 150 km da Addis Abeba, a Jato, il 7 agosto del 1932. Si tratta, naturalmente, di Abebe Bikila, il più grande maratoneta olimpico della storia. Per molti versi “il maratoneta” per eccellenza, al quale s’ispirò Dustin Hoffman nel thriller di John Schlesinger, intitolato, appunto, Il maratoneta. Quando la vita, con il suo carico di sofferenza, cercherà di afferrarlo sotto forma di un incidente che lo renderà paraplegico, Bikila reagirà nell’unico modo che conosce, correndo più in fretta di lei e facendo della velocità il suo stile di vita. Figlio di pastori etiopi, si avvicina allo sport arruolandosi nella polizia del negus Hailé Selassié, che aveva chiamato uno svedese, tale Onni Niskanen, a individuare tra i militari dei potenziali campioni. Nel 1960, ai campionati etiopici militari, Bikila (è questo il nome di battesimo) si fa notare per un tempo di 2 ore e 37 minuti, che gli dà il secondo posto nella maratona, dietro a Besha Teklu. Niskanen lo inserisce subito nel suo programma di preparazione per le Olimpiadi di Roma di quell’anno. Sotto la guida dello svedese, Bikila sistema la sua falcata e la strategia di gara, riuscendo a limare di ben 22 minuti il suo personale. La squadra abissina arriva nella capitale d’Italia, per la sua seconda partecipazione ai Giochi, dopo la deludente apparizione di Melbourne nel 1956. Bikila giunge un mese prima a Roma, per quelle che saranno le Olimpiadi della Dolce Vita, le prime in Italia e le prime trasmesse in TV. Lui però non si fa sedurre dalla mondanità e ogni giorno percorre le strade che ospiteranno la gara (tra via Cristoforo Colombo, il Grande Raccordo Anulare e la via Appia Antica). Niskanen lo segue con una 500 e gli suggerisce di correre senza scarpe; incredibilmente, in quel modo guadagna cinque o sei passi al minuto. Dunque, fu una scelta tecnica e non un paio di scarpe scomode, come vorrebbe la leggenda, a ispirare quella bizzarra e storica strategia. Inoltre la maratona si correrà, per la prima volta, in notturna evitando di gareggiare sull’asfalto bollente. Bikila cammina scalzo anche all’interno del Villaggio Olimpico, imparando alcune scalcinate frasi in italiano. Un po’ sgrammaticato, ma chiarissimo, si rivolgerà a un vigile mentre sta raggiungendo i nastri di partenza: “Faccio primo, arrivo primo”. La lunga corsa ha inizio dal Colosseo e nei primi venti km il maratoneta si nasconde, cercando con lo sguardo il pettorale numero 26, quello appartenente a Abdesselem Rhadi, il marocchino indicatogli da Niskanen come l’avversario più temibile. Il corridore magrebino, però, quel giorno ha il numero 185 e l’abissino non lo trova fino al ventesimo kilometro, quando lo individua perché è l’unico a reggere il suo ritmo. A quel punto, senza neanche voltarsi, Bikila va incontro alla vittoria cambiando ritmo, sentendo svanire in lontananza i passi di Rhadi. E’ il trionfo di un uomo e del suo popolo nel paese che gli aveva inflitto l’onta del colonialismo. Forse, proprio mentre passa davanti alla Stele di Axum (oggi restituita all’Etiopia), si rende conto della portata del suo successo e alla fina dichiarerà: “Ho voluto che il mondo sapesse che la mia gente ha sempre vinto con determinazione ed eroismo”. È nominato guardia imperiale dal negus, è un eroe senza precedenti, il primo atleta a portare un oro olimpico alla Africa nera, con uno straordinario primato del mondo di 2 ore 15 minuti e 16 secondi. Un’impresa irripetibile per tutti, ma non per lui stesso, che bisserà la vittoria alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, abbassando di quattro minuti il suo primato (2h 12’ 11’’) e divenendo l’unico atleta a vincere due volte la maratona alle Olimpiadi, in due edizioni consecutive. Questa volta, però, indossando le scarpe! Il destino lo attende ancora sull’asfalto, nel 1969 a Sheno, quando è vittima di un incidente stradale che lo priverà del suo punto di forza, le gambe. Bikila però rovescia lo svantaggio, dimostrando che gli arti sono sempre mossi dalla testa e torna a gareggiare, vincendo le Paralimpiadi del ’70, in Norvegia, nella specialità della corsa con slittino, sulla distanza dei 10 e dei 25 km. Sono forse questi i successi più significativi della sua carriera, che annovera due ori mondiali oltre ai due olimpici e una partecipazione alle Paralimpiadi di Heidelberg, nel tiro con l’arco. Morto giovanissimo, a soli 41 anni, gli sono stati tributati molti onori: uno stadio ad Addis Abeba, una targa a Roma e un documentario dedicato alla sua vita, Atletu, del connazionale Rasselas Lakew. Ma l’onore più grande è la sua stessa esistenza, sempre improntata alla fedeltà verso se stesso e i suoi valori, mai schiacciata dalla fama, fiduciosa nel potere di riscatto che dona lo sport. Se la maratona è la metafora della spettacolarità dello sport, allora Abebe Bikila è stato il suo attore più grande.