L'avventura de “La mia classe”, fra finzione e realtà

z1In origine doveva essere un “mockumentary”, ossia un falso documentario basato su eventi fittizi che vengono mostrati come reali ai fini della narrazione. “La mia classe” di Daniele Gaglianone, presentato a Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori, nasceva infatti come un film di finzione su una classe di studenti extracomunitari che imparano l’italiano: gli alunni, provenienti da tutto il mondo, sono reali; il professore, invece, è un attore.
Ma poi, all’improvviso, è diventato qualcosa di diverso. Vi è stata come un’esplosione di impulsi, sentimenti e circostanze che la storia di ciascun individuo ha portato con sé: in questo modo, la realtà stessa, che doveva essere narrata, ha preso il sopravvento sulla drammaturgia pensata.
Problemi concreti si sono insidiati nel pieno della realizzazione del film: a due settimane dall’inizio delle riprese, infatti, si è scoperto che ad alcuni dei ragazzi mancavano dei permessi per poter lavorare nel ruolo degli allievi. A quel punto, spiega il regista, si sarebbe potuto rinunciare al tutto, ignorare i divieti o far divenire questo inconveniente parte integrante della pellicola, valore aggiunto, come se fosse accaduto durante le riprese; una folle possibilità, quest’ultima, un compromesso con le difficoltà, un addomesticamento della cruda realtà all’istinto di sopravvivenza.
E il film va avanti e si costruisce da sé, si arricchisce per la strada.
L’artificiosità cinematografica è interamente canalizzata nel docente Valerio Mastandrea, l’unico che, secondo Gaglianone, poteva far proprio un ruolo così complesso, inserendovi non solo tutta la sua bravura e professionalità, ma anche una buona dose di spontaneità ed umanità, senza però lasciarsi sfuggire di mano la situazione.
Ciò che si delinea nel film, in tutta la sua naturalezza e al di là delle battute da copione, è il vissuto di ogni singolo individuo, con annessi problemi, aspettative e speranze: quello che irrompe e che fa la differenza è la vita reale di chi giunge in questo Paese con l’intenzione di lavorare e di costruirsi un futuro.
Sta proprio a questo doppio registro, basato su realtà e finzione, sottolineare sì l’importanza della cinematografia nell’affrontare problematiche quotidiane e complesse, ma anche l’imperativo categorico di non sfuggire mai alla realtà dei fatti per rifugiarsi in un mero mondo di autoreferenzialità, che corre il rischio di divenire sterile, fine a se stessa.
Questo film è un bell’esempio di cinema utile che devia senza problemi dall’impianto drammaturgico precostituito, arrivando a far leva sull’emotività dello spettatore, stimolandone la partecipazione attiva, senza però sollecitarne compassione, rifiutando uno sfogo di eccessi retorici.
La realtà che prende il sopravvento sulla finzione si svela nel suo divenire e si offre con naturalezza a chi la guarda dall’esterno, che ne prende atto e vi diventa parte integrante, smettendo di chiedersi cosa sta vedendo, qual è il confine fra il vero ed il falso.
Gli eventi e le circostanze ci travolgono e ci disarmano. Ragion per cui, siamo indotti a riflettere di più sul cuore del problema, sulle condizioni di vita chi è fuggito via dal proprio Paese, lasciandosi alle spalle qualcosa. Ma dietro ad ogni perdita c’è un guadagno nuovo che compensa; o almeno così si spera.

Michela Graziosi

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