My Firs Camera

Natalia Jidovanu è una psicologa 28enne di origini moldave: all’età di 16 anni si è trasferita col padre in Portogallo ed oggi, all’inizio del 2014, ha abbandonato il proprio lavoro ed è partita definitivamente per il Kenya, alla volta di Kibera, un’enorme baraccopoli vicino Nairobi. Natalia già vi si era recata nell’ambito di un progetto personale di fotografia documentale eppure, ritornare lì, stabilmente per giunta, ha determinato in lei un impatto emotivo quasi nuovo, dilaniante. Sono 350mila o forse addirittura un milione le persone che vivono a Kibera, luogo difficile da immaginare, fatto principalmente da 225 ettari di agglomerati in legno, creta e lamiere e considerato, di fatto, il più grande slum di latta dell’intero continente africano. I residenti sopravvivono giornalmente con meno di 0,73 centesimi di euro, portando avanti una lotta quotidiana per soddisfare le proprie necessità basilari: si cibano di un pasto al giorno, il lavoro non c’è così come manca il denaro per pagare l’assistenza medica; non vi è elettricità, non vi sono strade e l’acqua potabile scarseggia. Motivo del trasferimento definitivo di Natalia è un progetto da lei recentemente sviluppato, intitolato “My First Camera”: supportato da una campagna di crowdfunding, è rivolto principalmente ai bambini. Sono questi ultimi, infatti, a raccontare le proprie storie ed il proprio territorio, maturando consapevolezza e riflessioni sulle ingiustizie, sulle aspirazioni, sui diritti e sulle paure che riguardano loro stessi, facendo altresì in modo che il mondo intero rivolga lo sguardo a quel luogo, uno come tanti, che sembra essere relegato ai margini della coscienza di tutti. Strumento di lavoro le macchine fotografiche che Natalia ha introdotto nella comunità, oggetti sconosciuti e quasi magici per gli abitanti del posto. Secondo Natalia la fotografia è una chiave che può aprire la porta di accesso ai sogni: ed è infatti attraverso il progetto che a questi bambini sono state fornite un’opportunità di comprensione ed espressione artistica che altrimenti mai avrebbero avuto unita ad una componente educativa notevole, data dall’acquisizione di una serie di competenze comunicative ed espressive. Inoltre, il laboratorio di fotografia ha fatto in modo che l’arte si trasformasse in uno strumento potente con il quale denunciare ingiustizie, trasmettere messaggi, sollevare opinioni pubbliche ed incentivare i cambiamenti sociali. Le fotografie prodotte settimanalmente sono state discusse in gruppo assieme a nozioni di storytelling. Obiettivo finale sarà quello di raccogliere i lavori di tutti i partecipanti in un libro le cui vendite costituiranno un beneficio concreto per gli abitanti della stessa comunità e, dall’altro, uno “mentale” per noi occidentali che, ovattati nel benessere e nella routine quotidiana, dimentichiamo troppo stesso l’esistenza di luoghi infelici in cui la sopravvivenza non è poi così tanto scontata.

 

Michela Graziosi

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