Il cibo come evocatore delle proprie memorie: Massimo Viglietti e la cucina come caleidoscopio di sensazioni…

Entrare in un Luna Park, ovvero in un mondo incantato, fatto di giochi, divertimenti e stupore, è la filosofia e lo stile di vita di Massimo Viglietti: il suo mondo si chiama cucina, il suo Luna Park è invece la sua mente, che elabora, sente, avverte, percepisce…

Lo chef Viglietti si definisce un “bruciapadelle”, che ha fatto della cucina la sua vita, ma che, soprattutto, riesce ad infondere nei suoi piatti tutto se stesso, la sua vita, la sua famiglia: tutto ciò che si porta dentro. Sempre e da sempre.

Figlio d’arte, suo padre Silvio fu tra i primi stellati in Liguria, con il suo “Palma” ad Alassio, Massimo è cresciuto in un ambiente che saputo trasmettergli valori e competenze eccezionali.

Con la sua cucina, Massimo Viglietti guida il cliente verso la comprensione delle sue stesse sensazioni: una cucina soggettiva, quasi onirica, che trasporta il cliente come dentro ad un film o in un viaggio, in cui è bello anche perdersi…

“Oggi ci sono troppi falsi miti, idoli, situazioni che non ti permettono di vivere in maniera serena – ci spiega lo chef, che così prosegue – Ambizione, invidia e gelosia ci circondano e contaminano ed è difficile tornare indietro, lasciandoci in una sorta di girone dantesco, in cui spesso chi lavora in cucina lo fa più per ambizione personale che per il reale desiderio di regalare emozioni ai suoi clienti. Troppa la chimica molte volte utilizzata per esaltare il fattore estetico: di questo passo si rischia di avvicinarsi davvero eccessivamente ad un mondo dove mangiamo gomme, plastica, additivi, il tutto per un punto in più nelle guide…”

Lo chef vede nel cibo un guscio da cui uscire e da cui far scaturire la sua passione, un suo credo e con cui superare se stesso e dove, nel momento stesso in cui ti lasci andare, ti rimodelli nel tuo io e nel tuo animo.

Il cibo è la benda che lui indossa e ci fa indossare per percepire, davvero nel profondo, i quadri che ciascuno di noi sente, con colori alchimie e tonalità uniche.

Il cliente, allora, non è più un elemento da soddisfare, sempre pronto a giudicare, ma una tela su cui dipingere, su cui usare tutte le tue forme di espressione: uno strumento che ti permette di darti e di esprimerti.

“Per uno chef è importante avere degli stimoli nuovi, nuove sfide. Il mio essere fuori dagli schemi non mi impedisce di essere un professionista serio, ma con ancora tanta voglia di divertirsi in cucina”, ci racconta Massimo, la cui nuova sfida si chiama Taki Labò: una cucina che mischia i piatti di Massimo con quelli del Taki giapponese, con contaminazioni tra vino e sakè.

Da buon ligure, il nostro Massimo è un amante del Rossese di Dolceacqua, con 10 o 15 anni di affinamento in bottiglia, ma anche dei vini francesi, potendo vantare il titolo di Sommelier Francese; “il vino è un alimento, non una semplice bevanda. Ci sono piatti dove è meglio non utilizzare vino, ma magari un sakè o una acqua aromatizzata: l’abbinamento ideale non esiste.”

Entrare nel ristorante di Massimo è come essere avvolti in una girandola, dove a scorrere non sono solo i piatti, i profumi, i coralli o le pietre preziose, ma soprattutto noi, protagonisti per una notte di una magia: a luci spente, con musica soffusa, dove parlare non serve, perché a parlare è il cibo che, dalle bacchette o posate che siano, arriva in bocca e da qui scivola nel nostro animo.

Ciò che ne consegue è, alla fine, un ulteriore viaggio: un viaggio introspettico, da fare ad occhi chiusi, labbra serrate e cuore aperto.

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