‘55 giorni, l’Italia senza Moro’. Stefano Massini racconta gli umori e i pensieri dell’Italia che visse la tragedia del rapimento e dell’uccisione dello statista democristiano

Ci sono molti modi per raccontare la nostra Storia, le sue tragedie, analizzando i fatti e i dati storici, o ripercorrendo quei momenti, attimo per attimo, oppure attraverso la raccolta delle testimonianze.

E c’è, anche, un modo del tutto originale per ricordare quei momenti: raccontando gli umori della società mentre viveva in quei giorni i fatti, che come schegge impazzite affioravano qua e là dalla nera cronaca tra le pieghe del vivere quotidiano.

Così Stefano Massini racconta la terribile vicenda di Aldo Moro, quei cinquantacinque giorni che segnarono la nostra società, quel ritrovamento a via Caetani che sconvolse un Paese intero; e lo fa attraverso un saggio che stimola la curiosità del lettore, e rende vivi e palpabili quei giorni, disegnando un grande affresco del nostro Paese, un complesso puzzle, dove le vicende dello statista Aldo Moro, prima rapito dalle BR, e poi barbaramente giustiziato, dopo una angosciante, lunga prigionia, sono solo un dettaglio, importante e significativo, di una Storia più articolata, la nostra Storia.

Già, perché è importante capire e comprendere che Italia era, allora, quando tutto accadde, perché quella tragedia, ci segnò per sempre, fu la fine di una storia, e l’inizio di un nuovo percorso, dal quale ancora oggi fatichiamo a riprenderci.

Così nasce ‘55 giorni, l’Italia senza Moro’, edito da ‘Il Mulino’, una avvolgente fotografia, forse oggi un po’ sbiadita, della nostra Italia, una serie di istantanee che fissano per sempre volti, parole, gesti, suoni, umori di un Paese che stava vivendo un dramma collettivo.

“Non ho memoria dei giorni di Moro. Nella primavera del 1978 avevo due anni e mezzo, e per quanto mi raccontino come un bambino perspicace, avevo giustamente fra peluche e macchinine ben altre priorità che non la cronaca”.

E allora, per recuperare quella memoria smarrita, scolorita dallo scorrere del tempo, basterebbe semplicemente riavvolgere il nastro e rivivere le immagini di quel tempo perduto.

Perché, in fondo, “ogni guerra non è solo la cronaca di una somma di battaglie, quanto l’emergere di un sistema complesso di cause e di contesti. Era vero: studiare ciò che si muove sullo sfondo è in realtà un far luce sul primo piano, pur senza mai citarlo”.

Ed il racconto di Stefano Massini è proprio “un affresco su tutto ciò che si muoveva sfocato sullo sfondo”, il racconto “su ciò che si muoveva dietro e mentre quei fatti accadevano”.

Strano anno, quel 1978, che si era aperto “proprio nel segno del fuori di testa”; a Sanremo, al festival nazionalpopolare della canzone italiana, una vera liturgia per quei tempi, si presentò “un buffo omino dal cilindro nero”, che “vestiva con un frac chapliniano, sotto il quale – massimo abominio – osava esibire una maglietta a righe bianche e rosse, scarpette da ginnastica ai piedi, e un ridicolo papillon al collo. Vedendolo comparire nella cornice floreale del festival, qualcuno avrà pensato che Rino Gaetano sembrasse un pazzo fuggito dal manicomio”.

E la sua Gianna, fece scalpore, entrò nella mente degli italiani, divenne un successo, fu anche una colonna sonora di quei giorni.

Ma il 1978 fu anche l’anno in cui furono chiusi per legge i manicomi, la famosa legge Basaglia, ed è, questa una strana coincidenza: “mentre i giornali abbondavano di editoriali sulla follia sanguinaria brigatista, stava prendendo forma una radicale rivoluzione nel trattamento clinico dei folli veri”.

E proprio nelle hit parade di quell’anno, possiamo intuire quali erano i sentimenti degli italiani, le loro voglie, i loro desideri, insomma cosa eravamo.

C’era Gianna di Rino Gaetano, ma anche il Pensiero Stupendo di Patty Pravo, ed il famoso triangolo di Renato Zero, mentre in televisione trovava il suo successo nazionale, la commedia teatrale di Garinei e Giovannini, Aggiungi un posto a tavola.

“Appunto: aggiungi un posto a tavola, aggiungi un posto nel letto, aggiungi un posto nel complotto. Una specie di ossessione per il coinvolgimento altrui. Tutti insieme in allegra brigata. Pardon, meglio: tutti dietro o contro le Brigate Rosse”.

Perché anche nel tragico affaire Moro, tra Stato e BR, abbiamo fatto entrare in tanti, i servizi segreti deviati, la CIA, “le logge massoniche, la Banda Bassotti e chi più ne ha più ne metta”.

Un’Italia strana, quella, che voleva vivere quasi l’onda lunga del ‘68, che cercava di rompere tabù sociali monolitici, che voleva respirare la libertà, attraverso le genuine commedie boccaccesche che fecero il successo dei Buzzanca, degli Alvaro Vitali, delle Fenech, con Raffaella Carrà che andava in onda su mamma Rai, cantando l’amore libero da Trieste in giù, proprio “nelle settimane drammatiche di Moro”.

“C’è tutta l’Italia in questo stridere di opposti, in questo far convivere il sacro col profano, la Quaresima col Carnevale, il potere con l’anarchia, la Democrazia Cristiana con Lino Banfi e la lotta armata col compromesso storico. Ma i compromessi, si sa, sono fumo negli occhi di ogni adolescente inquieto, naturalmente propenso a scelte radicali. È l’effetto collaterale del credersi già adulti, ammessi nella stanza dei bottoni in cui si governa l’esistenza, laddove invece si siede a mala pena in anticamera”.

E l’Italia di quegli anni, l’Italia del ‘78 assomiglia anche tantissimo a Pinocchio, nello sceneggiato di Comencini, andato in onda, con successo, sugli schermi Rai, proprio in quel periodo.

Noi, come il burattino di legno, per diventare veri cittadini, dovevamo superare molteplici prove, anche traumatiche.

E cosa c’è di più traumatico da superare, della lotta terroristica, delle dolorose stragi, delle gambizzazioni, del sequestro di un uomo politico come Aldo Moro?

Nel cittadino comune di allora, poteva nascondersi un innocente, un potenziale martire, o perfino un anonimo brigatista.

“La clandestinità delle BR faceva sì che anche nel dirimpettaio o nel cugino di primo grado potesse celarsi un Bonisoli”, che seguiva alla lettera il decalogo brigatista, si camuffava tra le pieghe della società, magari canticchiava pure, davanti al jukebox di un bar, Gianna di Rino Gaetano, mentre la sua mente articolava il prossimo attacco alle istituzioni.

“Ogni persona può essere truccata, in tutti e due gli opposti sensi: truccata dal monopolio imperialista o truccata dalla clandestinità brigatista. Sì, decisamente: l’Italia del 1978 è un paese al maquillage, una comunità sfigurata in nome di opposti estremismi da makeup, dentro un grande teatro in cui tutti recitano un ruolo”.

Allora basta riavvolgere il nastro per capire che “il clima dell’ambiente musicale italiano rispecchiava abbastanza gli umori del paese, e in che misura ciò avvenisse si coglie da una decina di istantanee. Primo scatto: i servizi segreti che controllano i movimenti di Fabrizio De André sospettandolo di legami coi brigatisti. Secondo scatto: la censura RAI che castiga i primi piani sulle labbra di Mina, ritenute troppo carnose. Terzo scatto: Pierangelo Bertoli che fonda con un paio d’altri un movimento marxista leninista, e sotto queste insegne viene chiamato a esibirsi dal Partito Comunista Tedesco. Quarto scatto: Gianni Morandi che fa successo in tv con Sei forte papà mentre, all’opposto, Francesco Guccini si infuria contro un rotocalco reo di definirlo il papà che tutti vorrebbero. Quinto scatto: Gaber che si trasferisce per un po’ in Svizzera per prevenire rapimenti della sua bambina. Sesto scatto: al parco Lambro di Milano si mette in piedi un’affollata edizione del Festival Proletario Giovanile, ma fra i centomila ragazzi è tutto un fiorire di saccheggi, furti e risse, per cui Lotta Continua si dissocia e fine dell’esperienza. Settimo scatto: Vasco Rossi che si presenta dal pretore di Vignola per contestare il monopolio radiofonico della RAI, e rimane allibito che quello invece di arrestarlo gli dia ragione. Ottavo scatto: Lucio Dalla che inanella concerti nelle fabbriche esibendosi con uno scimpanzé di nome Natascia. Nono scatto: Domenico Modugno preso ferocemente a bersaglio sui giornali perché troppo strappalacrime. Quanto al decimo scatto, è appunto Francesco De Gregori che sul palco del Palalido di Milano subisce un processo con tanto di pistola puntata contro”.

Dieci semplici scatti per capire che Paese eravamo, in quegli anni, in quel 1978, proprio quando Moro fu tragicamente rapito, proprio durante quei cinquanta e passa giorni di prigionia, proprio quando a via Caetani fu rinvenuto il suo corpo, dentro una renault rossa.

Un’Italia “di finte identità e di paraventi”, in cui “ci sono mille modi di truccarsi, e il rimmel può essere una risorsa come un maledetto danno”.

L’uccisione barbara di Moro servì a questa Italia a crescere, a maturare il pensiero, politico e sociale, a togliersi trucchi e maschere, a discernere la lotta politica dalla lotta ideologica e violenta.

Aldo Moro, e Peppino Impastato, che fu ucciso dalla mafia proprio lo stesso giorno in cui fu rinvenuto il corpo dello statista, sono i simboli “di una reale vittoria delle idee, condotta con tenacia contro un potere monolitico, e di loro ci resta dopo quarant’anni l’esempio di un pensiero che seppe farsi contributo concreto allo sviluppo sociale e politico del paese”.

Invece, di chi “sparò in via Fani non rimane in fondo niente se non macerie, sprazzi d’orgoglio, rimorsi, distinguo, esili in Nicaragua, frammenti confusi di volontà e di illusioni rimaste al nastro”.

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