Teatro Sistina – corrente artistica Verticalismo

Al Teatro Sistina di Roma “movimento artistico Verticalismo”, dal 10 al 26 aprile. Artisti: K. Aquilotti, S. Barbagallo, N. Bortolotto, R. Calì, K. Caruso, G. Catania, S. Commercio, G. Compagnino, D. M. Costa, B. D’Accampo, F. Di Giovanni, A. Farinella, A. Guardo, T. La Scala, F. Liardo, N. Minio, V. Orto, G. Romeo, O. Spazzoli, A. Timpanaro.1

 

 

ANTEMURALE

 

 

Con il lemma Verticalismo si vuole significare un divenire di possibilità e “attiene a tutte le espressioni artistico-culturali non meno che socio-politiche. Muove dalla nostra corrente di pensiero filosofico-scientifica “la Via del Possibile” secondo la quale l’Universo (spazio eterno, fisico e non solo fisico) nato dal Nulla è un puro “campo di possibilità” che sfocia, nel suo continuum di possibilità, nella vita e, in forza di un processo filogenetico, nell’uomo (spazio biologico e dell’ io)”.

“Considerato che l’Universo e la (sua) vita si sono evoluti liberamente in quanto “campo di possibilità”, si può senza meno affermare che l’unica verità (libera da atti, da necessità, da radici deterministiche…) è il “campo di possibilità” dominio della libertà vera”.

“Dunque è la nuova concezione dello spatium (fisico, biologico e sociale) il sestante che ci istrada nell’ interlavoro io-società”.

“Da questa nuova visione del mondo muove una conoscenza “altra”, forte, che definitivamente libera dai residui di rigide formule artistiche e culturali che esaltavano verità assolute, misura di ogni azione”.

“Il nostro tamtam consiste nella teorizzazione, rappresentazione e pianificazione artistico-culturale e sociale dell’espansione dell’io attraverso la sovrapposizione e la disseminazione di campi di possibilità. Come dire che l’io inserito nel sociale e nelle attività umane impara e insegna ad assurgere a “verticale” (a “possibilità”) cioè a dire ad essere in undivenire di possibilità”. [Salvatore Commercio]

ARTE E SITUAZIONE SCIENTIFICA DEL VERTICALISMO

(Pot-pourri, 1975)

 

                                                                                                                          Don  Antonio Corsaro

Il collettivo verticalista, che avanza in un clima di legittima diffidenza, data la quasi totale sprovvedutezza degli storici dell’arte, degli estetologhi e dei critici da passeggio e della conferenza in tetrapak, porta in campo estetico una provocazione morale inedita, come ogni verità noetica rimasta inerte nel chiuso dei suoi tropi.  (…) Dal punto di vista sociale sollecita la trasformazione del linguaggio, poiché nel linguaggio si riconosce e si manda in effetto ciascun modello di società ortonoetica. Non c’è noèma, come sa la fenomenologia trascendentale, che non passi attraverso la mediazione linguistica in qualunque modo contrassegnata. E non c’è poiein o techne  che non trovi nelle omologie metalogiche il suo atto e il suo dominio costitutivi. Nel consentaneo la società riconosce se stessa e il proprio sviluppo.

(…) Alla base delle loro “invenzioni” resta il mutamento delle strutture economico-sociali. Avendo rifondato le arcaiche antinomie tra scienza e arte, essi credono che nella loro inscindibile corrispondenza metodica ci sia qualcosa di stabile e concreto. Credono quindi nell’arte “utile”, nella scienza “utile”. Utilità che verticalisticamente investe i fenomeni sociali e li trasforma.

(…) La convinzione verticalista si muove dentro l’ambito di omologie di struttura nel senso in cui, sul piano della moderna ricerca, le due metodologie, quella estetica e quella scientifica, evitando le astrattezze metafisiche, si reggono a vicenda. Ma non si vuole soltanto collaudare il metodo scientifico per l’interpretazione dell’arte. Anche la creatività, che pure appartiene alla sfera della intuizione, riceve stimoli e luce dalla scienza. All’artista spetta il compito di non lasciarsi travolgere dalla tecnologia. Se però al di là della tecnologia coltiva l’habitus scientifico, il suo prodotto avrà tutte le caratteristiche della verità e della bellezza.

(…) E proprio per questo esigiamo un eidos, vale a dire una forma, ciò che in sé stesso vive dei propri predicati. E’ verticale questo in-sé-stesso, nonostante le sembianze di una molteplicità senza numero. Oltre le leggi naturali immaginiamo sempre le variazioni possibili di una sola forma. Questa forma o essenza, superando la visione empirica, deve essere una forma pura. E le strade per arrivare a captarla, oggi, qui e ora, sono quelle che vogliamo designare con un avverbio e un aggettivo difficilmente riscontrabili nel dizionario dei luoghi comuni: sono “scientificamente artistiche”.

Qui si tocca il punto estremo del verticalismo. Enfin du moi – et du langage mathematique. Ogni categoria superiore è verticale, e l’eidos è una categoria superiore: la si trova in tutte le manifestazioni del particolare; nell’io, nel me stesso mallarmiano, nell’individuo.

Noi ci procuriamo dei colori, dei suoni, delle parole, dello spazio; ci procuriamo delle cose e ne vediamo un bagliore, un timbro, un segno un limite. La nostra visione è ridotta, e non perché, e non in quanto avrebbe ragione Sartre che di là dal fenomeno non trova nulla, ma perché i fenomeni sono tutti unilaterali e la totale illuminazione deriva dalla loro essenza pura. Noi, se artisti, siamo nell’inadeguato, però dall’inadeguato facciamo nascere la visione dell’essenza (…).

La moltiplicazione infinita che la visione personale genera adesso, e teleologicamente, con atto offerto agli atti demoltiplicati, senza sosta si trasforma, cioè passa ad altre forme, fino alla visione della forma, in una verticale equidistante dal progressum in infinitum al regressus infinitum (…). E l’occhio invitato a rappresentare la visione, affine all’occhio rivolto all’oggetto, toccando l’in-sé-stesso scopre i possibili, veri e falsi, in cui naviga la totalità dell’essere della vita. Questa totalità è forma, eidos, essenza, di in altro essere, dell’essere verticalizzato, perfetta oggettivazione di un trascendente, che però l’io, e esattamente il mio, deve sentire nell’arco acuto della sua esperienza. Nessun trascendente è vero se non è vissuto. La forma verticale non sarà mai una possibilità logica, non sarà mai una vana forma formale in un io privilegiato. La mia esperienza è la esperienza di ogni altro reale, non fosse altro, per una relazione di entropatia (…).

“Noi riteniamo che il sistema verticalistico sia l’unico sistema che corrisponda alle condizioni di civiltà in cui ci troviamo e corrisponda anche alla esigenza di superare tutti i modelli che l’arte del nostro tempo ci presenta. Per tale superamento è necessario essere verticalista. Ma essere verticalista non è facile, come correre dietro ad una ideologia. Essere verticalista significa creare una scienza e avere una precisa attitudine collettiva di fronte ad ogni azione umana e a tutto il mondo che ci circonda. L’ideologismo va bandito.

Se è vero che le opere d’arte devono servire alla vita dei gruppi sociali, esse devono pure servire a comunicare sentimenti e pensieri. Ma per fare ciò non possono prescindere dalla figurazione dello spazio a venire. In certo senso bisogna fare in arte quel che Durkheim fece scoprendo la nozione di spazio sociale, e non seguire il metodo di Wolfflin. Oggi, epistemologia, etnografia, matematiche, antropologia, possono concorrere a costruire il metodo o il sistema dello spazio verticalistico. Sappiamo bene che l’impresa non si esaurisce in un enunciato o in un desiderio. In arte i soli desideri non bastano. E sappiamo anche bene che l’artista potrebbe fallire nella resa del suo prodotto. Quel che conta è il sistema (come in politica), e non per ora il risultato della singola opera. Abbiamo la convinzione però che per mezzo del sistema verticalistico è possibile dare alla nostra epoca il linguaggio più concreto, il linguaggio più rappresentativo dello stato cui è pervenuto lo spirito umano.

“(…) La scienza, le tecniche, i costumi, la politica, la religione, la critica letteraria, la prosa, la poesia, tutte le conoscenze e le esperienze del nostro momento storico sono in processo di trasformazione. C’è una nuova concezione “semiologia” della letteratura, dell’arte. Non ci sono più messaggi, ma un mondo, direbbe Kafka, che va decifrato. Tutto da decifrare. La significazione delle cose, e non il loro senso, costituisce il vero statuto tautologico di ogni forma, letteraria e non. L’acculturazione che ci domina, i “pezzi” di storia che possiamo chiamare surrealismo, Brecht, strutturalismo, cultura di massa, presse du coeur, nuovo romanzo oggettivo, nuova poesia materialista, letteratura astratta, letteratura impegnata, eurocomunismo, rivoluzione proletaria, certo, sono “mode”, ma sono mode importantissime e positive; sono più che mode; sono la “differenza” della nostra diacronia non ancora storica; sono il fenomeno formale di una rotazione dei possibili. L’arte, ad esempio, la cui “sostanza” non è costituita dal linguaggio ma da rapporti sempre spaziali, fonda la sua diacronia nel modo di vedere lo spazio, nell’idea di spazio, ch’è un sistema di significazione decettivo, vale a dire un sistema adatto a moltiplicare le significazioni senza che mai queste vengano esaurite e colmate. (…) In arte, l’uomo modifica la visione dello spazio quando il suo linguaggio s’innesta sulla società in cui vive. La società è la materia dell’arte e comprende sensazioni e conoscenze, rapporti geometrici e matematici. Tutto sta nel concepire uno spazio capace di stabilire relazioni con gli oggetti e le immagini in esso implicati.

Il Verticalismo consiste perciò essenzialmente nel creare uno spazio nuovo, che non sia quello Rinascimentale né quello del post-cubismo, né qualsiasi altro che non abbia una validità in progress: uno spazio aperto alla verticalità umana e scientifica.

Ma che cos’è lo spazio verticalista sovrapposto? Non altro che un sistema convenzionale che tende a distruggere il sistema illusionistico rinascimentale e cubista corrispondente a un’immagine del mondo, propria di una civiltà, la nostra. (…) Lo spazio sovrapposto verticalista, tenendo conto delle concezioni matematiche, fisiche, geografiche del nostro mondo, consiste nella pluralità delle dimensioni intellettuali (…). Esso consiste nell’infinito demoltiplicato, continuo, che si autogenera, non come sviluppo o variazione di serie rappresentative ma come costante contraddizione che scoppia tra il soggetto e l’oggetto (…). Significa che un’opera d’arte diventa leggibile quando si rimonta verticalmente attraverso la genesi delle sue categorie linguistiche e della topologia dell’atto significante”.

                                                                                                                Don Antonio Corsaro

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