Tanti sguardi un solo sogno.La mostra di Kelly Costigliolo racconta come l’Africa ci vede per il Decennale di Watoto

La mostra di una giovane fotografa, racconta lo sguardo degli altri, dei bambini del Kenya uniti da un solo sogno che è anche quello del committente o meglio della Onlus alla quale è dedicato il lavoro di fI4uvzXtPer il decennale di Watoto, realtà che opera a Makobeni, (Malindi – fondata da Simona Sabbatini e a Roma sostenuta da Mariangela Alterini – allo Stadio di Domiziano, in occasione del compleanno di questa comunità, sono state esposte le immagini che raccontano la conquista di una tappa importante, che non è la meta perché il viaggio continua. Nato infatti come un progetto di assistenza, oggi Watoto è un modello di sviluppo di economia sostenibile che mira a rendere autonoma la comunità locale, non a ‘deportarne’ i membri in situazioni ‘migliori’ ma estranee. L’idea è di tenere insieme il valore dell’istruzione come sviluppo culturale, di informazione e formazione anche tecnica e di capacità di lavoro, oltre che di dialogo tra persone eterogenee. Il lavoro è sempre dialettico per cui anche chi ‘assiste’, ‘impara’.

Abbiamo incontrato Kelly al margine dell’incontro e le abbiamo chiesto di raccontarci il suo percorso e le abbiamo chiesto come si sia avvicinata al Kenia.

«Mi sono avvicinata a Watoto e al Kenya grazie ad un incontro, durante un viaggio in Brasile nell’Agosto 2013. Quando mi è stato raccontato che cosa faceva questa organizzazione in Kenya, la mia curiosità è stata automaticamente stimolata».

Com’ è nata l’idea della mostra? 

«L’idea della mostra nasce da Simona e da me. Avevamo deciso che sarei partita con 6 macchine fotografiche gentilmente offerte da alcuni soci, (macchine funzionanti, solamente ormai in disuso da parte dei loro proprietari) per fare dei corsi di fotografia base ai ragazzi dell’orfanotrofio di Makobeni durante l'”Holiday Program”, istituito dal 2012 da Watoto Kenya. Dopo un’ora di lezione tecnica e teorica, i ragazzi venivano lasciati liberi di fotografare nella zona adiacente all’orfanotrofio.

Al concludersi del corso abbiamo deciso di utilizzare proprio gli scatti per una mostra.

Più osservavo le loro fotografie e le mie, più mi rendevo conto di come erano differenti le angolazioni, il modo di cogliere i dettagli e di percepire la moda intorno a noi.

La mostra non è che il frutto quindi, delle ore spese insieme. Il mio sguardo e lo sguardo di chi, questa realtà la vive tutti i giorni».

Qual è il suo messaggio e come ha proceduto nel suo lavoro?

«Il mio messaggio è “sostenibilità e replicabilità”.

Tutto quel che viene fatto, nasce per essere creato, appreso, elaborato ed in seguito, essere trasmetterlo agli altri. In fotografia, si dice che per ottenere ottime serie, il modo migliore è quello di ritornare, a più riprese nello stesso posto.

Ci spostavamo dal centro di Malindi a Makobeni in pick up quasi tutti i giorni.

Durante i lunghi viaggi (circa 2 ore), la terra cambia spesso colore: passa dal marrone, al verde, al rosso con estrema facilità ed il cassone della vettura, era diventato ormai il “confessionale” nel quale ci si scambiava idee, riflessioni e parentesi delle nostre vite.

Per la prima volta in un continente dove il cielo non ti sovrasta ma ti attraversa, dove portare i bambini sulla schiena è una tradizione e non una modo e dove tutto procede “pole, pole” (piano, piano), dove lontani da qualsiasi tipo di tecnologia e dove la gente è forse più serena e cosciente della propria vita e del valore che essa ha ».

Cosa emerge da quegli sguardi? 

«Ammiro il senso di sharing che avevano i ragazzi della comunità di Makobeni. Al corso partecipavano 15 ragazzi e ovviamente le macchine non bastavano per tutti. Una volta fatto qualche scatto, l’uno passava la macchina all’altro senza che dovessi “riprenderli”, come avrei forse dovuto fare, invece, con qualsiasi ragazzino occidentale a cui avessi dato una macchina fotografica in mano. Questo, è un chiaro segno di serenità.

Penso che da quegli sguardi, emerga la voglia di scoprire e di scoprirsi.

Indimenticabili le loro espressioni quando si rivedevano sullo schermo di un monitor o delle macchine fotografiche».

Ilaria Guidantoni

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