Agostino Di Bartolomei.Ci vorrebbe più amore per il campione

di bartolomeiDibba ridi, così c’è scritto sul muro di una strada in un quartiere popolare di Roma, San Lorenzo, una delle roccaforti del tifo giallorosso nella capitale. A scriverlo sono stati i tifosi romanisti all’indomani della vittoria del terzo scudetto ottenuto dalla loro squadra del cuore e quel Dibba, che invitano a sorridere per il successo ottenuto, è Agostino Di Bartolomei. Molti lo chiamano anche Ago, perché per tutti è uno di famiglia, il classico giocatore che riconcilia i veri tifosi con il mondo del calcio, grazie alla classe innata che esprimeva sul campo da gioco e all’intelligenza e la saggezza che aveva fuori di esso. Anzi, per certi versi, era talmente “umano” e colto da non sembrare nemmeno un calciatore ma un intellettuale. Di Bartolomei era invece uno straordinario giocatore e non a caso il suo ruolo è sempre stato quello più complesso e importante del calcio, il mediano o il libero, colui che dirige la squadra, detta i ritmi e guida i compagni. È stato il capitano della grande Roma di Liedholm, da tutti gli appassionati considerata la più bella ed entusiasmante, con la quale vinse lo scudetto nella stagione ’82-’83 e raggiunse la finale di Coppa dei Campioni nell’84, persa ai rigori contro il Liverpool dei record guidato da Graeme Souness. Una ferita aperta e dolorosa nel cuore di tutti i tifosi romanisti, anche di quelli che non c’erano ancora o erano troppo piccoli per ricordarlo, una delusione anche per Ago, che grondava sangue giallorosso. La sua carriera inizia all’OMI, a due passi dal quartiere in cui è nato, Tor Marancia, da qui approda alle giovanili della Roma con la quale vince il titolo passando poi, a diciotto anni, in prima squadra. La sua visione di gioco è fuori dal comune, la classe e la serietà che esprime fin da ragazzino sono eccezionali e poi c’è il tiro, perché quando calcia Di Bartolomei la palla non si solleva di un centimetro dall’erba, viaggia come un tracciante verso la porta avversaria ad una velocità pazzesca. È stato uno dei calciatori più corretti del campionato italiano, un vero modello di sportività e lealtà; forse non è un caso che l’unica espulsione che subì in carriera fu contro la Juventus, quando venne allontanato dal campo insieme al bianconero Pietro Paolo Virdis, guadagnandosi agli occhi dei tifosi una medaglia più preziosa di qualunque merito di gioco. Era un vero e proprio alfiere del calcio all’italiana, quello che ha portato tanti successi al Bel Paese e infatti fu costretto ad abbandonare la Roma prima e il Milan poi, quando sulla panchina di queste squadre sedettero due “innovatori” come Sven Goran Eriksson e Arrigo Sacchi. Gli ultimi tre anni della sua sfolgorante carriera li ha trascorsi al Cesena e alla Salernitana. Dopo il ritiro fu opinionista per la RAI, durante i Mondiali del 1990 e fondò una scuola calcio, che porta il suo nome, nel comune di Castellabate dove andò a vivere. Un campione silenzioso, un fuoriclasse di onestà ed educazione, ma anche un calciatore raffinato e coraggioso in grado di condurre al trionfo un gruppo che non aveva di certo la vittoria nel sangue, ma aveva grande spirito ed un’eccezionale guida in campo. Anche per questo la vita di Dibba ha avuto una fine sbagliata, che non si concilia con la sua grande esperienza umana. La mattina del 30 maggio del 1994, Ago puntò la sua Smith & Wesson calibro 38 contro il petto e fece fuoco, ponendo fine alla sua esistenza nel giorno esatto in cui, dieci anni prima, aveva subito la più forte delusione della sua carriera, in quella maledetta serata allo Stadio Olimpico, davanti al suo pubblico, che vide alzare la coppa ai rivali del Liverpool, ma non smise mai di amarlo e ancora oggi lo considera uno dei suoi idoli più grandi. Non solo i tifosi romanisti conservano un bel ricordo di lui e lo hanno omaggiato in questi anni. A lui sono stati dedicati il Campo “A” del Centro Sportivo di Trigoria, dove si allena l’AS Roma e una via nel comune di Castellabate; il personaggio di Antonio Pisapia nel film L’uomo in più di Sorrentino è ispirato alla sua figura; la sua vita è stata raccontata nel libro L’ultima partita di Bianconi e Salerno, con una lettera del figlio Luca nella prefazione e da un documentario, 11 metri, diretto da Francesco Del Grosso; il cantautore romano Antonello Venditti, amico di Di Bartolomei, gli ha dedicato la canzone Tradimento e perdono, nella quale canta che i campioni, coloro che hanno fatto felice la gente, meritano amore incondizionato anche dopo che hanno smesso. E allora Dibba, ridi davvero pensando all’amore della gente che ti ha voluto bene e te ne vuole ancora, ridi non per le vittorie sportive, che sono niente in confronto alla grandezza e alla generosità della tua anima. Ridi, Dibba ed esci da quel buco in cui ti sentivi rinchiuso, perché il tuo esempio resterà in eterno nei cuori giallorossi e non solo, perché sarai, per sempre, il nostro capitano.

Patrizio Pitzalis

 

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