Breve riflessione sul giornalismo di moda che non critica più la moda

q1L’inchiesta de Il Fatto Quotidiano su Stefano Dominella apre una riflessione su un giornalismo adagiato sugli omaggi e vincolato dalle esigenze pubblicitarie.

Pochi giorni prima delle elezioni comunali a Roma, David Perluigi e Nello Trocchia de Il Fatto Quotidiano pubblicano un’inchiesta su uno dei nomi nella lista di Ignazio Marino, candidato sindaco, quello del presidente della maison Gattinoni Stefano Dominella. L’articolo riporta, con la cura che si addice a un’inchiesta ben fatta, una storia di fatture pagate con soldi pubblici risalenti al periodo in cui Dominella ha ricoperto l’incarico di presidente di Altaroma, società a partecipazione pubblica che gestisce la settimana della moda della Capitale. Ora, Stefano Dominella si è candidato al Comune- risultando poi non eletto- incentrando la propria campagna elettorale sulla necessità, tangibile a Roma come in tutta Italia, di investimenti nel settore moda, una delle due o tre voci  in costante crescita della nostra economia, e si è difeso giustificando i regali come omaggi regolarmente autorizzati da Altaroma e fatturati dalla sua società solo per una questione di praticità. Al di là dei dettagli della vicenda, documentata comunque a sufficienza, quello che colpisce è che a firmare l’inchiesta siano stati due giornalisti che non hanno nulla a che vedere con la moda, a cominciare dal desiderio di dire le cose come stanno, di esercitare un’intelligenza e una critica che ormai, una manciata di firme a parte, risulta completamente estraneo al giornalismo di moda italiano, soprattutto quello delle nuove generazioni. Stretto tra una dilagante mancanza di preparazione reale– sulla storia del costume, ma anche sulla storia in generale, sull’attualità, sulla politica e l’economia internazionali, se è vero che la moda è ben lontana dall’essere solo una borsa trendy- e dalla necessità di accontentare gli investitori in anni di crisi della pubblicità e ridefinizione dei qpropri spazi, il giornalismo di moda italiano perde verve, spirito critico e capacità di mostrare i fatti oltre l’orlo di un vestito. In un circolo vizioso che vede quei pochissimi nomi “importanti “parlare sempre bene dei soliti stilisti che poi si adoperano in ogni modo per compiacerli, per leggere una riflessione sensata bisogna evitare la stampa di settore o rivolgersi all’estero, altrimenti è una selva di copia-incolla dai comunicati stampa, informazioni inutili e ridicoli anglicismi.

Il tradizionale ruolo di watchdog del giornalista, cui dovrebbe ambire chiunque svolga questa professione, che lo faccia nei corridoi del Parlamento o in prima fila alle sfilate, è praticamente scomparso- salvo rare eccezioni- dalle pagine di moda delle testate: allettato dall’osso di omaggi e privilegi o direttamente messo a cuccia dalla prospettiva di veder sparire le inserzioni pubblicitarie del marchio che si è osato criticare. E’stato sostituito, in questo prodigioso universo che è la Rete– piattaforma dove a tutti gli effetti vigono le leggi del mondo reale, non sarà mai detto abbastanza, sia quelle del codice penale sia quelle di deontologia e formazione professionale, completamente ignote invece, queste ultime, al giornalista in pigiama di Andrew Keen– da un numero infinito di dilettanti spesso al secondo semestre di studi di moda che rispondono al nome di fashion blogger. Alcuni veri e propri personaggi con uno stile molto personale- ma nemmeno uno in Italia-, che possono contare su gran numero di utenti reali, e non quelli comprati a pacchetti sui social, ma per la maggior parte indefinite figure per cui un taglio ben fatto è quello di un abito di qualche catena low- cost, appiattiti su tendenze di cui non saprebbero riconoscere ispirazioni e ragioni, pronti a mettere in campo tutte le loro competenze con un imperdibile post sugli smalti di stagione. Quelli che, pochi giorni prima, l’azienda produttrice ha provveduto a far recapitare loro come gentile omaggio. Lungi dall’essere la voce indipendente che ci si sarebbe aspettati qualche anno fa, rappresentano oggi un vero e proprio strumento di marketing, “un investimento da potenziare”, come ha risposto, a domanda diretta, Pietro Negra, presidente di Pinko, durante il recente intervento all’università La Sapienza, in osservanza di una pratica largamente condivisa nel settore. Non è giornalismo, è vero, ma spesso viene confuso con questo, da chi legge e, quel che è peggio, anche da chi lo pratica: ma il giornalismo non è una voce di spesa in un bilancio aziendale, nemmeno con quei “dovuti omaggi” che, come Stefano Dominella ha candidamente ammesso- nessuna novità, in effetti-, rappresentano il minimo nei confronti di giornalisti che hanno seguito con interesse le attività del marchio. Il giornalismo serve a scoprire, capire, far riflettere: serve a far spostare, con la spina nel fianco di un’inchiesta ben fatta e ben scritta, quegli investimenti dal marketing camuffato da opinione al miglioramento del prodotto e delle condizioni di lavoro dei dipendenti, tasto spesso dolente e quanto mai di scottante attualità.

 

Claudia Proietti

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